Un’ultima volta, giaciamo insieme
L’odio profondo per una qualunque idea di esistenza è un pozzo senza fondo dove si affonda. Sono le cose più semplici che fanno più male come provare a pensare a vite immaginarie. Da non fare, da non fare. Poi alla fine con una parola – disagio – si risolve tutto il dolore. Bisogna gettare tutto lì, nel cumulo dei crimini del capitale, della cattiva coscienza della civiltà tra i profitti dei narcotrafficanti e i bilanci delle case farmaceutiche, tra l’alcool e l’azzardo di Stato, tra il feticismo della merce e la mercede della fede. Un archivio calligrafico del vuoto, un’enciclopedia del dolore dove la società può rassegnarsi senza grande sforzo. Benvenuti, lasciate la speranza all’ingresso insieme agli zaini e agli ombrelli. Quella cazzata che si chiama coscienza è ora di oscurarla quando giungono i giorni delle colpe collettive che vengono espunte dalle mente insana del corpo mistico del popolo puro, ingannato e oppresso da corpi estranei. Come se le cellule tumorali non fossero state prime cellule sane dello stesso corpo. In tutta questa estraneità non si può che divenire estranei. La marcia degli innocenti si estende a perdita d’occhio, la fila si allunga talmente che in coda di trovano i colpevoli travolti da cotanto contagioso entusiasmo massivo e solidale. Si cessa di esistere perché si cessa di credere, si sbaglia tutto perché ci si è creduto. Non si sa cosa si è mai voluto solo per sentirsi sempre gli stessi, per non sfuggirsi. Si perde solo tutte le volte che ci si prova, poi si smette di provare. Quel che conta, infine, è che l’ectoplasma, appaia in buona salute. Qualcuno vuole una sorpresa? Un pentimento? Una defezione, una resipiscienza, una morte gloriosa? Siamo eroi in incognito negli abiti del travet, diecimila pagine/anno di cultura, di odio, di noia, di violenza e merda. Rivestiremo nero in attesa di pseudo-libertà e cripto dittature. E tutti si affollano con la boria a precipizio, sgomitano per dimostrare la propria vacuità. Si ergono alti, nani implosi, e si sforzano di sembrare sensibili, vogliono apparire dolci, ambiscono alla fama di (sic!) umani.
Mentre bisognerebbe solo essere più crudeli e comportarsi in maniera spietata e agire in modo brutale. Solo un po’ di verità, almeno alcune briciole, nient’altro. Sabbia da inserire in fantocci svuotati, sventrati con la furia del convertitore di fronte ai selvaggi pagani. Non dire alcuna parola, nessuna parola in cui non credi ciecamente, non proferire parola che non sia di odio*. Alcuni lodevoli silenzi intarsiano le fiumane di parole inutili vomitate dalle assemblee, dai convivi, dai luoghi sociali. Pulpiti tribunizi con galloni e decorazioni appuntate che proferiscono lezioni magistrali da altoparlanti che non si possono spegnere. Lì lo scandalo, là la vergogna, di lì le dichiarazioni shock. Oh! assenza di parole salvifica, mancanza di suono che brilla e sembra quasi assumere un significato profondo. Il prezzo è smettere di esistere, la resa incondizionata alla cacofonia, una rinuncia che è amore universale per l’inutilità di ogni resistenza.
Urlate il vostro amore per il nero, gridate per affermare la vostra dedizione al male. Dopo che migliaia di volte non si è saputo cosa rispondere, anni passati a contare incomprensioni e silenzi imbarazzanti.
Dopo che solo l’odio sembrava essere cosa viva, dopo che si resta inebetiti di fronte ai pensieri degli automi, attoniti di fronte all’indifferenza di stampini umani, dopo l’ennesima ira buttata via senza feriti, dopo le bombe a grappolo degli ego marciti e scottati allo specchio.
Dopo che si è rinunciato alla comprensione per legittima difesa. Dopo la distruzione di massa della banalità e della rivendicata ignoranza. Dopo la corsa al ribasso per depauperare il vocabolario comune.
Dopo tutto questo, i tempi sono maturi per chiudere il solito, sempre lo stesso, patetico sermone. Bisogna essere grandi per scrivere silenzi e bisogna essere colmi di presenza per riuscire a svanire. Qualcuno ce la può fare.
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